Mi è capitato di acquistare questo opuscoletto ad un mercatino di paese.
Si tratta di un'ode di D'Annunzio per Cadorna, scritta nel 1915 e facente parte della raccolta "canti della guerra latina/preghiere dell'Avvento".
Qui ripubblicata nel 1924 dalla tipografia Treves. Milano, su richiesta del c
"Comitato nazionale onoranze a Luigi Cadorna" per l'occasione della consegna della casa al generale per riconoscenza.
Ma chi fu Luigi Cadorna?
Nasce a Pallanza nel 1850 - muore a Bordighera nel 1928
Nel luglio 1914 fu chiamato a sostituire il gen. A. Pollio come capo di stato maggiore, durante i dieci mesi di neutralità si adoperò a restituire all'esercito l'efficienza necessaria per partecipare, occorrendo, alla guerra. Entrata l'Italia in guerra (1915), C., perseguendo una tattica di logoramento dell'avversario, si pose in difensiva dallo Stelvio al medio-alto Isonzo e passò all'offensiva nella regione isontina. I principali successi ottenuti sotto il suo comando (caratterizzato peraltro da durissima disciplina e da scarsa considerazione delle esigenze umane del soldato) furono: l'arresto dell'offensiva austriaca nel Trentino (primavera 1916), la conquista di Gorizia, dovuta a un'improvvisa azione ad oriente, e la vittoria alla Bansizza (estate 1917). L'offensiva di Caporetto (ott. 1917) costrinse C. a ordinare il ripiegamento dello schieramento orientale dell'esercito dietro il Piave. Lasciato il comando l'8 nov. 1917 in seguito a questi avvenimenti e sostituito dal gen. A. Diaz, fu nominato membro del Consiglio superiore di guerra interalleato di Versailles, ma nel febbr. 1918 fu richiamato in Italia, a disposizione della commissione d'inchiesta sui fatti di Caporetto, e nel 1919 collocato a riposo. Senatore del Regno dal 1913, nel 1924 fu nominato maresciallo d'Italia.
Per chi volesse approfondire:
http://www.treccani.it/enciclopedia/luigi-...io-Biografico)/https://it.m.wikipedia.org/wiki/Luigi_CadornaQuesti, che vedi curvo su le carte,
nel più duro granito del Verbano
tagliato e scarpellato fu, di mano
di maestro; e il vigor soverchiò l’arte.
La sua chiusa virtù, che par novella,
nella tenacia dell’antica schiatta
usa a fare e patire, assuefatta
ad attendere in fede la sua stella,
si foggiò per i secoli, celato
diamante che incudine non doma.
V’incise il segno mistico di Roma,
Dio d’Italia, l’acume del tuo fato.
Guarda il suo maschio vólto dove l’orma
del tempo e il solco dello studio scava
nella tristezza della carne ignava
e trova l’osso che non si difforma.
Conta le sue fatiche a ruga a ruga,
novera gli anni suoi, segno per segno:
giovine il teschio vige, quasi ordegno
di quella volontà che il cor gli fruga.
Non meno adunco vomere mordea
la fronte di quel giusto che l’obbrobrio
cinse; ma v’era incancellato il sobrio
eroe di Maratona e di Platea.
Guarda la sua mascella che tien fermo,
guarda severità della sua bocca
onde il comando ed il castigo scocca,
e il lampo a cui la pàlpebra fa schermo
gravata sopra il chiaro occhio che scaglia
l’anima al segno e il tratto non misura.
Sempre in tutt’arme egli è senza armatura.
Tutta nel pugno nudo ha la battaglia.
Quel condottiere che dal piedestallo
la morta riva domina in Vinegia
minacciata dal barbaro e dispregia
la minaccia del ciel, solo, a cavallo,
Bartolomeo grifagno come Dante
che converso abbia in elmo il suo cappuccio
a gote, chiuso in piastra il suo corruccio,
preso a trattar cavalleggiere e fante,
tu lo vedi al segnale delle trombe
sollevare e sferrare i battaglioni
come balestra lancia i suoi bolzoni,
come mortaio lancia le sue bombe.
Tal questi, senz’arcione ma più grande,
senza gesto né grido, solo armato
del suo tacito genio e del suo fato,
amplia la forza che quel bronzo spande.
Egli ha mura da prendere, fiumane
da valicare e gioghi e vette e gole,
ghiacciai deserti, valli senza sole,
fosche petraie, squallide biancane.
Vigila ai ponti dell’Isonzo; a Plezzo
tuona; a Tolmino folgora; tien Plava
e la vetta, Voraia e il passo; scava
la trincea nella neve ed issa il pezzo.
Gorizia in cor gli crolla. Il Carso gronda
sangue inesausto nel suo petto. Tutta
la terra combattuta, arsa e distrutta,
dentro gli sorge, dentro gli sprofonda.
La malga e il picco, il botro e la laguna,
la roccia e il muro, l’argine e la fossa
vivono in lui come le vene e l’ossa,
come i disegni della sua fortuna.
Egli è la terra ed è l’assalitore.
E la forza degli uomini respira
in lui, palpita in lui, freme e s’adira,
giubila e canta in lui, combatte e muore.
Verso tutte le cime della gloria
egli la incalza. Ecco, subitamente
il suo pensiero si fa carne ardente,
grido e strage si fa, morte e vittoria.
Tutte le notti dallo Stelvio al Carso
la gran barra di fuoco arde e risuona.
Egli la sua certezza ne incorona,
la sua certezza in te, Dio ricomparso.
O Dio d’Italia, tieni la tua mano
su questa fronte che facesti dura
più delle fronti loro. Egli ti giura
che tanto sangue non t’è dato invano.
Egli si prostra come il donatore
che giugnea le manopole di maglia
in atto pio, nel cuor della battaglia
avendo colto un portentoso fiore.
La sua casa egli pensa sul suo lago
quieta, dove per la porta adorna
d’una ghirlanda il terzo dei Cadorna
rientrerà, sol di silenzii pago,
e innanzi alle due mute Ombre severe
scioglierà gli alti vóti, i grandi fati
adempirà, l’isole dei beati
quivi splendendo nell’albor leggiere.
O Dio, per questo duce che ci spezza
il tuo pane, io ti prego che tu m’oda.
Acùmina la sua certezza, e inchioda
nei nostri petti, o Dio, la sua certezza.